QUEL CHE RESTA DELLA GUERRA

di Marco Di Stefano

La testa di ponte di Anzio

Per meglio comprendere l’intensità dei combattimenti avvenuti a Anzio e Nettuno si deve osservare innanzitutto l’esigua ampiezza della testa di ponte alleata. Questa misurava una larghezza di circa 20 Km per una lunghezza di 15 Km. In questo piccolo spazio si concentrano in quattro mesi di cruenti combattimenti ben nove divisioni alleate. Intorno a queste in un semicerchio che aveva come base le spiagge del Mar Tirreno, i tedeschi schierarono altrettante divisioni, molte di queste tra le migliori dell’esercito. Nel corso dei quattro mesi si ebbero sanguinosi attacchi e contrattacchi da ambo le parti. Questi si svolsero soprattutto nei mesi da fine Gennaio a inizio Marzo, dopodiché sul campo di battaglia scese una relativa calma. In questo periodo si ricrearono le stesse condizioni del fronte della I ° Guerra Mondiale, azioni di pattuglia, piccoli ma sanguinosi attacchi locali, per la conquista di avamposti e trincee da ambedue le parti.

L’artiglierie campali e navali numerosissime trasformarono la vita dei già provati soldati in un inferno in terra. Si costruirono rifuggi sotterranei, l’unico modo per sopravvivere al fuoco tambureggiante dei pezzi d’artiglieria messi in campo dalle opposte forze. Per complicare ancora di più la vita dei soldati ci fu l’inverno, freddo e piovoso. Questo trasformò ben presto l’intera testa di ponte in un pantano fangoso. Eventualità che se da una parte evitava l’assalto dei mezzi corazzati a causa del terreno cedevole, da l’altra rendeva altamente drammatica la sopravvivenza di chi doveva vivere a l’addiaccio nelle buche e tane di volpe, causandogli gravi malattie polmonari. Come se non bastasse ci fu anche la malaria, malattia tipica dei luoghi paludosi quale era allora la pianura Pontina. Questa era incrementata anche dall’allagamento di vaste aree bonificate da parte dei tedeschi, per rendere impossibile oppure difficoltoso il movimento di truppe e carri armati nemici.

L’aviazione dei due schieramenti ebbe una parte importantissima nella battaglia di Anzio-Nettuno, è stato calcolato che nel solo giorno del 16 Febbraio (Operazione Fish Fang), entrarono in azione ben 600 aerei alleati, sul terreno agricolo di Anzio Nettuno, ossia un aereo ogni 10 mq. Le bombe alleate sganciate sulle formazioni italo tedesche raggiunsero 1200 Kg. Per ogni mq. di zona di combattimento su un fronte di 8 km. e profondità massima di 10  km.

Gli Alleati, nella stessa area, avevano organizzato 180 campi minati con 40.378 mine ma secondo i dati complessivi, si concorda nello stabilire  che nel territorio dello sbarco e su un fronte di 40 Km, i Tedeschi approntarono 73.000 mine contro le 121.000 Alleate. Ossia quattromila tonnellate di mine, calcolando il peso in 10 Kg. ciascuna, di cui tre su quattro anticarro. Dal calcolo sono escluse quelle lanciate dai Tedeschi nello specchio acqueo della zona di sbarco e del porto.

Le perdite umane furono enormi, ci sono testimonianze di G.I. americani che videro interi battaglioni tedeschi che certi della vittoria attaccavano le loro posizioni cantando inni germanici. Di fronte alle linee di un battaglione americano dopo un assalto furono contati ben 500 caduti tedeschi. Soltanto durante il grande attacco tedesco iniziato il 16 e conclusosi il 19 Febbraio ambedue gli schieramenti persero 19.000 uomini.

Particolarmente sofferta nelle postazioni ai limiti dei Wadis (in italiano Uadi- letto asciutto di un torrente) e dei fossi innumerevoli, la pioggia tradizionalmente abbondante in marzo – mese che a Roma è detto “pazzo” – allagando trincee e ricoveri. Furono, infatti, migliaia i casi di soldati mandati negli ospedali o addirittura a Napoli per le gravi conseguenze subite agli arti inferiori dalla continua esposizione al freddo, all’umidità e anche alla scarsa igiene. La patologia era chiamata “piede da trincea” “Trench foot”. Non era diversa la condizione dei soldati tedeschi, come accertato con i prigionieri catturati, altrettanto laceri e sporchi.

Un manifesto dell’esercito degli Stati Uniti stampato durante la seconda guerra mondiale sensibilizza i soldati sulla prevenzione della malattia: Questo è il piede da trincea, previenilo tenendo i piedi asciutti e puliti.

“Tra le due linee, nella terra di nessuno, giacevano carcasse insepolte di animali uccisi dalle mine o da granate, cavalli, asini, vacche con le zampe al cielo, pecore ecc, con miriadi di mosche. Lo storico inglese Raleigh Trevelyan, arrivato ad Anzio con i Green Howard, così chiuse la descrizione “La pioggia, diventata fiume che trascinava fango, scoperchiava tombe poco profonde portando alla luce un braccio coperto dalla divisa, ora uno stivale….”

In quattro mesi ad Anzio e Nettuno caddero 50.000 uomini.

QUEL CHE RESTA DELLA GUERRA

Quando leggiamo le testimonianze dei reduci, oppure studiamo le mappe militari dell’epoca che riguardano il territorio interessato dalle battaglie del 1944 avvenute in seguito allo Sbarco di Anzio e Nettuno notiamo che spesso sono citati i nomi dei luoghi, dei fossi, degli edifici ma che oggi sono difficili da trovare.  La campagna di Anzio fu combattuta per lo più nell’entroterra e per comprendere appieno le strategie, le testimonianze, i punti di riferimento sono essenziali.

Oggi non è semplice ritrovare questi luoghi; l’urbanizzazione spesso ha inglobato le colline, fatto scomparire i boschi. Le piantagioni e le proprietà private, sovente impediscono di passeggiare su quei luoghi che hanno visto morire tanti uomini. Alcune costruzioni, riportate nei libri, oggi non esistono più perché non sono sopravvissute alla guerra, come ad esempio Torre Spaccasassi, una delle antiche torri di osservazione poste nell’entroterra del territorio. Per il neofito o il turista non è facile sapere che Campomorto dal 1958 è stato ribattezzato, Campoverde. Il cavalcavia con la massicciata che costò tante vite umane e che sovrastava il campo di battaglia, chiamato allora “The Embankment” (l’argine), oggi è un ponte moderno su cui passa la SS. 148 Pontina, e pochi ricordano il nome che era stato dato dagli alleati a questa strada che in realtà all’epoca era una massicciata ferroviaria in disuso…“Bowling Alley”, perché era dritta come una pista da bowling.

Il cavalcavia, a sinistra le rovine sono quel che restava della stazione ferroviaria di Carroceto
Stessa foto 76 anni dopo. All’interno del cavalcavia si può ancora vedere l’arco a volta del vecchio ponte; prima dell’arco si vede l’allargamento della carreggiata sovrastante
Il cavalcavia e una parte dell’Embankment (l’argine) oggi

A nord di Aprilia, a circa un km percorrendo la via Nettunense in direzione Campoleone, su una collina nella Tenuta Federici, sorgeva una fattoria che fu chiamata con diversi nomi “Dung Farm”, “Smelly Farm” o “Horror Farm“, in questo luogo, strategico per la sua posizione dal 3 al 12 febbraio imperversò la battaglia durante il contrattacco che le forze tedesche organizzarono per restringere il saliente che da Campoleone arrivava fino ad Aprilia.

Campoleone

Aprilia nel 1944 era chiamata dagli alleati “The factory”, per via dei suoi edifici in mattoni rossi che rammentavano una fabbrica, oggi quella piccola porzione di cittadina è incorporata nella grande città che gli è cresciuta intorno negli ultimi settant’anni.

APRILIA PRIMA DELLA DISTRUZIONE
Aprilia dopo i combattimenti

Resta simile all’originale il “Flyover”, il cavalcavia sull’ex via Anziate, oggi via Nettunense, a pochi km da Aprilia. Wynford Vaughan-Thomas era un corrispondente di guerra della BBC che sbarcò ad Anzio. Nel 1961 pubblicò il resoconto della battaglia nel suo libro “Anzio”.

“Il ponte sopraelevato è ancora lì, rotto, sfregiato e segnato da armi da fuoco. E’ un piacere per la memoria. . . Persino i resti della vecchia trincea di osservazione sono ancora lì e la terra sottostante dove un carro armato abbandonato giaceva silenzioso e di traverso per i quattro mesi della battaglia. . . Può davvero essere questa la scena del contrattacco nemico, il “terreno di sterminio” delle lotte di febbraio. Il Cavalcavia sembra essere l’unico luogo, nella moderna di Anzio, dove il vecchio soldato può porsi queste domande “.

Quando abbiamo visitato Anzio per la prima volta nell’Aprile 1976, abbiamo trovato i supporti malandati ancora in piedi, ma purtroppo sono stati demoliti per costruire un nuovo ponte poco dopo la nostra partenza.” Il Flyover fu il punto più estremo nelle linee alleate che i tedeschi riuscirono a raggiungere nella grande offensiva del 16/20 febbraio 1944 (Operazione Fish Fang).

THE FLYOVER
THE FLYOVER
THE FLYOVER
The Flyover oggi

Com’è intatta, sebbene in cattive condizioni la Torre di Padiglione, proprietà privata, su via Selciatella che scorre a poche centinaia di metri dal fosso Spaccasassi che di storie da raccontare ne ha a iosa. Su via Selciatella possiamo ancora vedere l’edificio in rovina della scuola Trossi, fatiscente e immersa in una cornice di degrado e incuria.

TORRE DI PADIGLIONE
RUDERE DELLA SCUOLA TROSSI E IL DEGRADO

I fossi di varie dimensioni, che gli alleati chiamavano “Ditch” sparsi su questo territorio durante i quattro mesi di combattimenti furono essenziali e strategici. Spesso percorrevano entrambi gli schieramenti e venivano usati per questo motivo per infiltrazioni e attacchi a sorpresa. Servivano come riparo per gli uomini e i materiali e per molti sono stati anche tomba. Ricordiamo i più importanti: fosso della Moletta, il già citato fosso Spaccasassi, il fosso di Carano, il fosso del Gorgolicino, quello dei Prefetti, delle Mole, della Femmina Morta, di Cisterna, di Pantano (Bottagone). Il fiume Astura che incrociandosi con il canale Mussolini vicino a Campomorto, serpeggiando fino a Le Ferriere, prosegue e sfocia a un km da Torre Astura. Il canale Mussolini che scorre fra i territori comunali di Latina e Cisterna di Latina, oggi è chiamato “Canale delle Acque Alte” ma all’epoca fornì protezione per mesi alle truppe avanzanti alleate.

Un fosso, la parola italiana per “ditch”, la testa di ponte era ricoperta di fossi di varie dimensioni

Qualche casale abbandonato ricorda la battaglia ma sono sempre meno quelli ancora in piedi. Resta presso Carano la tomba di Menotti Garibaldi e poco distante il cimitero abbandonato di Carano, per mesi punto di forza tedesco, con i suoi muri sbrecciati e ricoperti di vegetazione con i vecchi fori di proiettili che rammentano al visitatore quei giorni di combattimenti.

CIMITERO DI CARANO

Isola Bella ha ancora il suo nome ma resta ben poco della battaglia se non le colonne sbrecciate e incredibilmente ricoperte anch’esse dai fori dei proiettili.

ISOLA BELLA

Le colline, che contrariamente a quanto si possa credere se pensiamo alla pianura pontina, invece rappresentano una buona parte del terreno dei combattimenti. Quote non molto alte, intorno ai 100 metri fino a scendere ai 50/60 metri, ma che all’occhio attento creano un paesaggio ondulato inframmezzato di terreno piano e scoperto in mezzo al quale si dipano i fossi che scendono dai Colli Albani, quasi sempre in direzione da Est a Ovest, verso il mare, per congiungersi a volte con l’ex Canale Mussolini che invece percorre la piana pontina da Nord a Sud per poi curvare decisamente a ovest per raggiungere infine il mar Tirreno presso Foce Verde. Le Colline, appunto, spesso punti di forza delle difese dei due schieramenti e in mezzo tra i campi, barriere di filo spinato e tante mine.

I boschi, oggi sono quasi scomparsi; il Bosco di Padiglione era il più grande, ma anche piccole macchie, resti di quella che fu la Selva di Cisterna e più indietro verso il mare il vasto bosco del Foglino in località Tre Cancelli. Leggendo tra le righe ecco apparire il bosco di Rubbia, oggi scomparso, ma che nel 1944 fu un punto strategico alleato. Il bosco di Rubbia, le colline di Rubbia, la collina 77, tra i due fossi, quello di Femmina Morta e delle Mole, un Chilometro e mezzo a ovest di Ponte Rotto, quello nuovo ricostruito dopo la guerra, il vecchio fu fatto saltare durante la controffensiva tedesca del 29 febbraio 1944. Oggi dei nomi di questi luoghi resta solo un piccolo centro abitato chiamato “17 Rubbie”.  Le strade erano poche durante quel tragico inverno. La maggioranza della ragnatela stradale era costituita da stradine non lastricate e fangose, spesso unico tragitto percorribile dai mezzi corazzati che sarebbero inesorabilmente sprofondati nel fango di quella stagione molto piovosa e fredda se solo fossero avanzati fuori strada; le strade costituivano un terreno solido per spostare i carri armati ma durante gli attacchi costituivano un problema rilevante perché permettevano l’avanzamento di pochi mezzi alla volta e le mine e gli anticarro nemici avevano vita facile nel distruggerli.

A nord della testa di ponte, scorre il Fosso della Moletta, largo dai 6 agli 8 metri, ha le proprie acque profonde normalmente poco più di un metro ma nell’inverno del 1944 le acque si presentavano notevolmente gonfie a causa della pioggia che spesso cadeva copiosa, tanto che per attraversarlo le truppe germaniche, nel corso dei loro attacchi, usavano delle passerelle di legno che gettavano sul fosso. Il fosso fu la linea del fronte durante tutti e quattro i mesi della campagna. Il fosso della Moletta, da est a nord ovest, attraversa il territorio, chiamato dagli inglesi, dei “Wadis”, letti di ruscelli profondi, ricoperti di vegetazione e semi-asciutti, e poi vallette e colline. Ancora oggi questa porzione di territorio mantiene le stesse caratteristiche, poichè le stesse particolarità che nel 1944 provocarono non poche problematiche alle truppe di ambedue gli schieramenti, ancora oggi ne impediscono l’urbanizzazione. Il Casale Buon Riposo sito sull’omonimo colle sorge tra i due rami del fosso, oggi, infatti, è facilmente identificabile, come lo è la zona dove sorgeva il Bosco di Fossignano, ma non lo sono, invece, i toponimi: “Casa Rossa”, “Quota Cuore”, “Bosco dei Pini”, le Quote 58, 54, 74 e 75 e “Macchia S. Lucia”, e ancora il “South Lobster Claw”, “The Starfish”, e “The Boot”, questi ultimi dati dalle truppe britanniche osservando l’orografia delle foto aeree che ricordavano queste figure. Si può ancora percorrere l’allora Strada Provinciale 82 (oggi SP 12a) che dal cavalcavia (il Flyover) scorre fino a Tor San Lorenzo a meno di 1 km dal “Fosso del Diavolo”, luogo spesso citato nella letteratura sullo Sbarco di Anzio. A circa due km. da Aprilia (The Factory) a destra della via Nettunense, per chi arriva da Campoleone, sorge l’area delle “The Caves” (le Cave), un complesso di grotte che durante i mesi dello sbarco diedero rifugio ai civili ma anche ai militari degli opposti schieramenti. La zona delle Cave fu direttamente coinvolta durante la maggiore offensiva tedesca del 16/20 febbraio nella “battaglia delle Cave”. Ancora oggi possono essere visitate.

Le Cave oggi
Fosso della Moletta oggi

Di fronte a Littoria (oggi Latina), un 1.5 a nord est di Borgo Piave, lungo la strada dell’Acqua Bianca, e passando per il fosso del Gorgolicino, Cerreto Alto, a sud ovest tra Borgo Sabotino e il Lago di Fogliano, passava la linea del fronte nel marzo del 1944. Toponimi che denominavano i capisaldi: “casa Farangola”, “ridotta Fracassini”,  “Erna”, “Dora”, “Frida” e “Greta”, “la strada nascosta”; oggi sono introvabili, possiamo supporre la loro ubicazione studiando i documenti e le mappe ma i campi arati, le nuove costruzioni rendono oggi impossibile trovare l’esatta posizione di queste fortificazioni. Nemmeno i reduci, spesso, tornando in questi luoghi sono riusciti a dire dove si trovavano.

Littoria dall’alto (1932)

Cisterna di Littoria, come Aprilia un punto strategico che gli Alleati, dopo una battaglia durissima riuscirono conquistare il 25 maggio 1944. I tedeschi si rintanarono allora dentro Palazzo Caetani ma alle prime ore del pomeriggio, si arresero agli Americani. Cisterna era rasa al suolo con quasi il 96% degli edifici distrutti. Palazzo Caetani, tuttavia, è ancora esistente. Non compare più sulle cartine il toponimo di “La Villa”, luogo sito lungo la linea ferroviaria Cisterna Campoleone.

La Villa
Cisterna dopo i combattimenti

Oggi, nel 21° secolo, pochi ricordano quei giorni bui, solamente il ricercatore appassionato sa leggere tra quelle strade, i pochi ruderi, i campi aperti e le colline, tutto quello che a molti sfugge: la guerra con le sue migliaia di morti, il dolore ma anche il coraggio di chi ormai raro testimone, in quei mesi del 1944, calpestò questa terra umida e fangosa. La gente oggi abita su queste terre, le coltiva, percorre le sue strade, solo raramente e sbadatamente dal finestrino delle proprie auto, assorti nei propri pensieri, guardano questi paesaggi ma non vedono ciò che è stato reso sacro dal sangue dei tanti che qui combatterono, soffrirono e morirono.

Erich Marie Remarque nel suo libro sulla Grande Guerra ” Im Westen nichts Neues” scrive Fuoco tambureggiante, fuoco d’interdizione, cortina di fuoco, bombarde, gas, tanks, mitragliatrici, bombe a mano: sono parole, parole, ma abbracciano tutto l’orrore del mondo –

Questo è quel che resta della guerra…

“Nel fosso e nella Torre Spaccasassi (nei pressi di Carano) scorse tanto sangue giovane nella terra fredda, i miei migliori amici furono repentinamente stappati alla vita. Nella notte del 24 maggio 1944, in mezzo ad un terribile massacro e a un fuoco senza sosta, sperimentai la mano protettrice di Dio, e l’abbandono della mia vita al Signore. Più avanti, precisamente la domenica di Pentecoste, fui gravemente ferito vicino Colle del Piano. Grazie ai fedeli camerati e per l’aiuto di Dio, la mia vita fu salvata. Dopo ore, vicino a La Torretta, quando strinsi la mano a Gerhard, il mio amico più intimo, non presagivo che solo quattro ore dopo avrebbe lasciato la sua fiorente vita. Stava appena albeggiando quando già martellava su di noi un mortifero fuoco tambureggiante. Gli scoppi delle granate tuonavano tutt’intorno. Noi due compagni ci stringevamo nella nostra buca scavata sulla terra. Con le mani raspammo una piccola conca per nascondere meglio la testa. Il cuore batteva forte. Si sentivano in continuazione brevi fischi e già i proiettili scoppiavano con rumore assordante attorno a noi. Ogni barlume di speranza era svanito. Nell’interiore gridavamo a Dio tremanti di paura, mentre l’orecchio percepiva senza tregua i fischi e il fracasso degli elementi scatenati. Nessun metro di terra vicino a noi fu risparmiato, salvo il nostro riparo largo cm. 70 lungo 120 e profondo 80. La mia cintura e il berretto che erano rimasti sul mucchio di terra scavata furono dilaniati dalle granate. A causa del fumo della polvere da sparo non vedemmo quasi niente. Le labbra si screpolarono e in bocca un sapore amaro. Ovviamente l’Altissimo ci aveva protetto. ” (Testo originale, in italiano, di Hermann Seub poi alla vita religiosa).

Tratto dal libro “La lunga strada per Roma” di Ennio Silvestri

FINE

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